di Antonio Polito
questure e centri di ascolto, quando piove dal cielo l'ennesimo
scandalo? Come fa a decidere se deve trattarlo come una bufala o come
una cosa seria? La risposta è: va d'istinto. Si fida del buon senso.
Si lascia guidare da un dettaglio, da un nome, da una circostanza.
Leggendo la lunga tavarolata di ieri su Repubblica, il dettaglio che
mi è saltato agli occhi è il seguente: Piero Fassino e Nicola Rossi
che gestiscono a Londra l'Oak fund (il fondo Quercia), dove l'ormai
mitica maxi-tangente pagata da Colaninno ai Ds sarebbe approdata dopo
essere passata «nella pancia di trecento società in giro per
l'Europa». Ora io conosco un po' Piero Fassino, e un po' meglio
Nicola Rossi. E so per certo che la cosa è impossibile. Non perché
scommetta sulla loro onestà, cosa che pure faccio e che ieri hanno
fatto in tanti. Ma perché vi posso assicurare che se la Quercia
avesse davvero avuto un tesoro all'estero, non l'avrebbe mai affidato
a Fassino e Rossi. Il primo è un frenetico piemontese che non sta
fermo un minuto, che pensa solo alla politica, s'inebria di
interviste e di passioni: avrebbe difficoltà a gestire le rate del
mutuo di casa, figurarsi un fondo all'estero. Il secondo, poi, è un
mite gentiluomo meridionale che vive del suo, un intellettuale della
Magna Grecia del tutto privo di quella fedeltà alla Causa, perinde ac
cadaver, che sarebbe necessaria perché gli fosse affidata la chiave
della ditta. Voglio essere sincero fino in fondo: ci fossero stati
altri due nomi, al posto di quelli, (che so, Caio e Sempronio, e
sostituite pure voi lo pseudonimo con i nomi che vi vengono in mente)
avrei dubitato. Ma Fassino e Rossi no. Per favore.
Il dettaglio falso. Mi è successa qualcosa del genere qualche
settimana fa, quando uscì la falsa intercettazione in cui Berlusconi
parlava della Carfagna con Confalonieri. Anche lì, subito una nota
stonata. Il falso Berlusconi diceva: preferirei farmi un altro lodo
Mondadori che farmi..., i puntini seguono per decenza. Ecco,
immaginare che all'uomo, al culmine di una rievocazione erotica,
venisse in mente il lodo Mondadori, mi era impossibile. E infatti non
era vero.
Stessa cosa mi accadde con l'altro presunto scandalo Telekom Serbia,
quando il Giornale pubblicò le rivelazioni di un tizio secondo il
quale anche lì Fassino, con Prodi e Dini, aveva intascato fior di
tangenti. E anche lì un particolare stonato. La gola profonda diceva
che il nome in codice di Fassino, ai tempi della dazione,
era «Cicogna». Ora io sapevo con certezza che il primo a disegnare
Fassino come una cicogna era stato il vignettista del Riformista del
tempo, Roberto Perini, e che i fatti in questione risalivano a prima
della nascita di questo giornale. «Cicogna» era dunque una citazione
anacronistica. Scommisi subito per la balla. Di balla si trattava.
Buon senso dice che se un dettaglio è clamorosamente falso, l'intera
storia puzza. È ciò che sospetto. E mi domando: se balza agli occhi
di un povero giornalista, perché non balza agli occhi di un
giornalista ricchissimo di fonti, di notizie e di mezzi? (E, tra
parentesi, ma perché ve la prendete sempre con Fassino?).